Veniamo svegliati all’alba da una mucca che a deciso di grattarsi le corna sul nostro paraurti, poi, chilometri e chilometri di territorio piatto, arido, argilloso o pietroso; quasi disabitato, solo qualche gher, di tanto in tanto, indica la presenza di una fonte d’acqua. Il sole è implacabile e il vento caldo e costante secca ogni cosa, anche la nostra pelle. Beviamo 3/4 litri d’acqua al giorno a testa, non sudiamo mai. Le ore di guida, nelle ore centrali della giornata, diventano molto pesanti. Frequenti piccoli tornado di polvere nascono e muoiono poche centinaia di metri dopo, non superano i 20 metri di altezza. Il motore picchia in testa ad ogni accenno di salita, la benzina che si trova in pompe di fortuna, azionate a mano, non supera gli 80 ottani. E’ un bene di lusso, costando quasi un dollaro, per una popolazione che mensilmente, mediamente, campa con circa 100 dollari. Forse per questo ci sono molte moto, più economiche e parche nei consumi, nonostante le pessime condizioni delle piste. E’ comune vedere delle gher con pannello solare, antenna satellitare e moto o UAZ parcheggiate a fianco.
Arriviamo ad Altai City, non volevamo arrivare qui ma ad Altai Tays, circa 120 chilometri più a Nord, ma i “locals” (come noi chiamiamo gli autoctoni), con le loro indicazioni ci hanno spedito qui. Muoversi solo su piste è meno banale di quanto possa sembrare. Il GPS aiuta ma è molto impreciso, abbiamo visionato pure una mappa della Mongolia di un equipaggio inglese che, forse corrisponderà alla rete viaria della Mongolia del 2050, con delle strade segnate non ancora costruite, cioè tutte, perché l’asfalto qui non esiste.
Altai City, dicevo, un centro civile di almeno 60.000 anime, con due banche, numerosi negozi, due Internet caffè affollatissimi ma privi di Internet e un vigile che ci ha fatto una multa perché avevamo parcheggiato troppo vicino ad un incrocio, ovviamente non ha avuto nulla da ridire quando siamo andati via contromano, per evitare una buca di mezzo metro. Dobbiamo fare benzina, cambiare valuta, rifornirci di acqua e viveri. Facile, no? Le insegne sono in cirillico e i negozi non hanno vetrine. Tutto sommato sarebbero inutili, vendono tutti le stesse cose. Al market si può solitamente trovare qualche genere di igiene personale e per la casa, sigarette, alcoolici, dolci confezionati, pane vecchio di giorni, farine. Hanno un frigo, di solito spento e vuoto, alcuni l’hanno acceso e ci tengono del burro artigianale. Il nostro pranzo di solito è a base di biscotti, fatto guidando, dei quali abbiamo ormai la nausea. In un negozio, stufi dei soliti dolci, chiediamo delle merendine esposte in uno scaffale, la signorina ride e ci indica tre merendine in una vetrinetta del bancone. Le diciamo che va bene, vogliamo due scatole, una per macchina. Gentilmente ci spiega, in un buon inglese, che le merendine disponibile sono solo tre. Le altre, quelle esposte, sono scatole vuote. Prendiamo l’acqua, tutta l’acqua in bottiglia del negozio: due bottiglie. Anche per le sigarette è lo stesso problema, fumiamo in tre su quattro, qualsiasi cosa, ma fumiamo. Quando acquistiamo le sigarette le prendiamo a stecche. Ora abbiamo imparato a non chiedere più la stecca, ma a chiedere prima quanti pacchetti di una determinata marca abbiano, per non mortificarli, visto che le sigarette qui le vendono anche sciolte ed è facile che abbiano solo pochi pacchetti. Dopo decine di negozi di alimentari visitati, partiremo con sette bottiglie d’acqua da 1,5 litri. Il latte lo abbiamo trovato non negli alimentari ma dal fruttivendolo.
Lasciamo il paese.